
Aspera Basia Calice di Fuoco (“Fire”)
La leggenda e le sue origini
L’origine del misterioso Sacro di Birmania si perde e sfuma in una splendida leggenda che narra di cento gatti allevati nel tempio di Lao-Tsun nell’antica Birmania. Questa leggenda, che ha avuto un largo successo ed è riportata in tutti i siti che parlano di Birmani, è stata pubblicata per la prima volta nell’opera di Marcel Renay “Nos amis les chats” (ed.Grasset, Ginevra, 1947) che a sua volta si rifà ad un articolo pubblicato nel 1926 su Minerva (rivista femminile quindicinale edita dal 1925 al 1938) da Fernand Méry, veterinario a cui era stata raccontata dalla scrittrice Marcelle Adam, segretaria del sindacato degli scrittori francesi, alla quale a sua volta, era stata raccontata da una misteriosa avventuriera di nome Madame Leotardi.
Il racconto spiega il perché dell’appellativo “sacro” che è dato a questi gatti: il progenitore della specie, in Birmania, sarebbe stato il custode dell’anima del suo compagno umano deceduto fino a che questa non è ascesa, con lui, verso il paradiso.
La narratrice racconta che nel tempio dei monaci Kittah, costruito alle pendici del monte Lugh, il gran sacerdote Mun-hà passava la sua piissima vita in sacra meditazione. Quella che segue è la traduzione di quel racconto originale, leggermente diverso da come è comunemente riportato e contenente anche una maledizione che a noi piace intendere come un monito ad amare e rispettare questi affascinanti animali, che hanno, innegabilmente, un che di spirituale nello sguardo profondo e misterioso.
“Non ci fu un solo minuto, un solo sguardo, un unico pensiero della sua esistenza che non fosse consacrato all’adorazione, alla contemplazione e al pio servizio di Tsun-Kyanksé, la dea dagli occhi di zaffiro, colei che presiede alla trasmutazione delle anime, permettendo ai Kittah di rivivere in un animale sacro la durata della loro esistenza terrena prima di riprendere le sembianze della perfezione totale e sacra dei grandi sacerdoti. Vicino a lui, Mun-Hà, meditava Sinh, il suo caro oracolo, un gatto tutto bianco, i cui occhi erano gialli per il riflesso della barba dorata del suo maestro e del corpo d’oro della dea dagli occhi blu come il cielo… Sinh, il gatto consigliere, le cui orecchie, naso, coda e l’estremità delle zampe erano dello scuro colore della negra terra, simbolo della lordura e dell’impurità di tutto ciò che è terreno.
Ora avvenne che un giorno, in cui la luna malevola permise ai maledetti Phoum venuti dal Siam aborrito di avvicinarsi alle sacre mura del tempio, il gran sacerdote Mun-Hà, senza smettere di implorare il destino crudele, entrò dolcemente nella morte, con al fianco il suo gatto divino e sotto gli occhi e la disperazione di tutti i suoi kittah.
E’ allora che avvenne il miracolo unico della trasmutazione improvvisa: d’un tratto, Sinh salì sul trono d’oro, sulla testa del suo maestro caduto. Si inarcò su questa testa venerabile che, per la prima volta, non contemplava più la dea. Restò a suo turno con gli occhi fissati sulla statua eterna e allora si videro i peli erti della sua schiena bianca divenire improvvisamente giallo oro, e i suoi occhi divennero blu, immensi e profondi come quelli della dea. E mentre girava lentamente la testa verso la porta sud, le sue quattro zampe che toccavano la testa venerabile divennero di un bianco candido fino a dove erano affondati nella sacra seta delle vesti del gran sacerdote. Quando i suoi occhi si ritrassero dalla porta sud, i kittah obbedendo a quello sguardo imperativo, carico di durezza e di luce, si precipitarono per chiudere le pesanti porte di bronzo sul primo invasore.
Il tempio fu così salvo della profanazione e dal saccheggio.
Sinh non aveva però lasciato il trono: restava immobile, gli occhi profondamente fissati in quelli della dea, e il settimo giorno morì così, misterioso e ieratico, portando verso Tsun-Kyanksé l’anima di Mun-Hà, troppo perfetta ormai per la terra.
E quando, sette giorni più tardi, i monaci erano riuniti a consulto davanti alla statua per decidere la successione di Mum-Hà, videro accorrere tutti i gatti del tempio. Erano tutti vestiti d’oro e guantati di bianco, tutti avevano mutato in zaffiro profondo il giallo dei loro occhi. E tutti, in silenzio, circondarono il più giovane dei kittah, designato così dagli antichi reincarnati per volontà della dea”
“E ora – precisa la narratrice – quando muore un gatto sacro del tempio di Lao –Tsun è l’anima di un kittah che riprende per sempre il suo posto nel paradiso di Song-Hio, il dio d’oro. Ma che la sfortuna ricada su colui che affretta la fine di uno di questi animali meravigliosi, anche se non l’ha voluto. Soffrirà i più crudeli tormenti fino a che non si acquieti l’anima in pena che ha turbato…”
La storia
In realtà la storia di questi gatti e del loro allevamento in Europa e in Italia è quasi più misteriosa della sua leggenda.
Sembra che l’origine europea di questi gatti risalga alla coppia arrivata d’oltremare nel 1918, portata dal miliardario americano Vanderbilt. Egli durante una crociera in Oriente riuscì ad acquistare a caro prezzo una coppia di Birmani probabilmente rubati al tempio di Lao-Tsun dove erano allevati. Questa coppia fu data ad una certa Signora Thadde Hadisch, ma il maschio morì accidentalmente sulla nave e la femmina, Sita, fortunatamente gravida, diede alla luce una cucciolata nella quale vi era una bellissima femmina Poupée, nata al loro arrivo a Nizza. Poupée fu poi incrociata con un siamese e da lei è nata tutta la razza.
Un’altra fonte, invece racconta che nel 1919, il francese A. Pavie e l’inglese G. Russel in un difficile frangente ebbero occasione di aiutare i monaci Kittahs che dalla Birmania, in segno di riconoscimento, inviarono loro in Francia due dei rarissimi e preziosissimi gatti birmani da loro stessi allevati e ritenuti sacri. Il resto della storia coincide, rivelando che si tratta della stessa coppia.
Altre fonti parlano piú verosimilmente di un gatto creato in Europa da abili allevatori francesi che avevano incrociato dei persiani colour point, gatti siamesi con lo spotting bianco sulle zampe e comuni gatti di casa a pelo lungo, selezionando poi i cuccioli fino ad ottenere i guantini bianchi tanto amati dagli aristocratici e dai ricchi borghesi dell’epoca.
Negli anni trenta, in Francia, uno splendido esemplare maschio, Dieu d’Arkan, ottenne un grande successo di pubblico.
Il birmano venne battezzato negli anni ’50 “Sacro di Birmania” per distinguerlo ed evitare qualsiasi confusione con il Burmese (parola che indica in inglese l’abitante della Birmania). Dopo l’ultima guerra mondiale, la razza purtroppo fu vicina ad estinguersi: in tutto il mondo rimasero pochissime coppie e gli allevatori dovettero di nuovo ricorrere all’incrocio fra siamesi e persiani.
Negli anni ’60 in Francia questi gatti ebbero un vero boom di pubblico, persino l’amatissima attrice Romy Schneider ne possedeva un esemplare.
E’ stato ufficialmente riconosciuto in Francia nel 1925. Nell’esposizione del 1926 sembra che siano state presentate due splendide seal: Poupée del Madalpour e Manou de Mandalpour che ottennero un grande successo.
In Gran Bretagna la razza è stata riconosciuto nel 1966 e nel 1967 negli Stati Uniti.
Per quanto riguarda l’Italia, Francamaria Gabriele, scrive sul sito dell’Anfi che dalle sue indagini risulta che negli anni trenta proprio Dieu d’Arkan sia stato ospitato nel castello di Francavilla Bisio, sotto la proprietà della la Contessa Giriodi Panissera, insieme ad altri esemplari di cui si sono perse le tracce. Nei cataloghi delle esposizioni feline italiane da lei esaminati non risultano iscrizioni di esemplari di sacri della Birmania fino ad anni recenti.
Lei stessa ha riportato la razza in Italia nel 1979, anno in cui riuscì ad ottenere dagli allevatori francesi la prima coppia: Porthos de Tchao Pai e Paquita.
Da allora l’allevamento del Sacro della Birmania ha visto un interesse crescente fino a farne uno dei gatti più “alla moda” e ricercarti dal pubblico, cosa che purtroppo, se da una parte giova alla promozione della razza e incrementa gli studi su questi animali, dall’altro provoca il pullulare di commerci dagli scopi non sempre cristallini e disinteressati, come purtroppo succede spesso in molti campi dove il business prende il posto della passione e dello studio necessario ad un approccio serio e competente.
Lo standard del Birmano (FIFé)
Generale: taglia media
Testa: forma: ossatura robusta; fronte lievemente arrotondata; guance piene, alquanto arrotondate; naso di media lunghezza, senza stop, ma con una leggera intaccatura; mento consistente.
Orecchie: forma: abbastanza piccole con la punta arrotondata; posizione: leggermente inclinate, non troppo sulla sommità del cranio,ben distanziate
Occhi: forma: Leggermente ovale, non eccessivamente arrotondata; colore: blu profondo
Corpo: struttura: leggermente allungata. I maschi devono essere più massicci delle femmine
Zampe: Corte e grosse; piedi arrotondati. Guanti: La caratteristica speciale dei Birmani è data da i piedi bianchi, chiamati “guanti”, il guantaggio risiede sia nei piedi anteriori che in quelli posteriori. I guanti devono essere di un bianco assolutamente puro. Devono fermarsi all’articolazione, cioè al punto di transizione tra dita e metacarpi, al di sopra dei quali non devono estendersi. Possono essere tollerati guanti bianchi leggermente più lunghi sulle zampe posteriori. Sulla faccia plantare delle zampe posteriori i guanti terminano a punta. Il guantaggio posteriore (detto gambaletto o “gauntlet”) ideale termina in “V” invertite e si estende da metà a tre quarti dello spazio tra piede e garretto. Guantaggi più bassi o più alti sono ammessi purché non superino il garretto. E’ importante che i guanti siano della stessa lunghezza e mostrino una simmetria di bianco almeno tra le due zampe anteriori e le due posteriori, ancor meglio tra tutte e quattro.
Coda: di media lunghezza, a pennacchio
Mantello:Struttura: da lunga a semi-lunga, in armonia con le diverse parti del corpo: corta sul muso, gradualmente più lunga sulle guance a formare una gorgiera, lunga sulla schiena e sui fianchi. Tessitura setosa. Scarso sottopelo. Colore: presenta tutte le caratteristiche conosciute nei gatti “colour point” (a punte colorate), ma tutti e quattro i piedi sono bianchi (guanti). I “point” includono muso, orecchie, gambe, coda e genitali. Le punte devono essere uniformi ed in contrasto con il colore del corpo. Il colore del corpo e del ventre è guscio d’uovo molto pallido; il dorso è beige dorato in tutte le varietà. Solo negli adulti il colore dei point e del corpo sono completamente definiti.
Difetti generali (fault)
Mantello : bianco puro o macchie colorate sul torace o sul ventre
Difetti che precludono il certificato in expo:
Naso: pigmentazione del naso incompleta
Zampe: risalita del bianco sui lati o sulla parte posteriore dei guanti, sia posteriori che anteriori (conosciuti come “runner”). Assenza di gambaletti sulle zampe posteriori.
Mantello: macchie bianche (“gocce di latte”) sulle parti colorate e viceversa; macchia bianca sui genitali
Scala dei punti | Totale 100 punti | |
Testa | conformazione generale, guance, naso, bocca e denti, fronte, mento posizione e forma delle orecchie |
20 punti |
forma e colore degli occhi | 5 punti | |
Corpo | forma, taglia, struttura ossea, zampe e forma dei piedi | 20 punti |
Coda | lunghezza e forma | 10 punti |
Mantello | colore del corpo e point | 10 punti |
qualità e tessitura, lunghezza | 10 punti | |
Guanti | sulle zampe anteriori | 5 punti |
sulle zampe posteriori | 5 punti | |
gambaletti | 5 punti | |
uniformità e simmetria dei guanti e dei gambaletti | 5 punti | |
Condizione | 5 punti |